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Il filo d'Europa ci porterà fuori dal labirinto

di Carlo Azeglio Ciampi

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4 giugno 2009

Ho accolto molto volentieri l'invito a partecipare a questa serie di «Lezioni per il futuro», iniziativa meritoria con la quale Il Sole 24 Ore dà vita a un confronto a più voci sulla crisi. Mi offre l'occasione di svolgere qualche considerazione che, movendo dalla crisi, assume carattere più generale. Si tratta, d'altra parte, di temi sui quali mi trovo sempre più spesso a riflettere in questa fase della vita.
Tutte le volte che sono stato sollecitato a esprimere un parere, una valutazione sullo sconvolgimento del sistema finanziario internazionale mi son chiesto che cosa ci si aspettasse da me. Come Guido Carli, mi vien fatto di osservare che «esiste oggi una generazione di economisti che ha conoscenze più raffinate di quelle delle quali io sono dotato e capace di offrire analisi economiche con le quali non ho la presunzione di saper competere». Anch'io mi rendo conto che ciò che posso offrire sono «giudizi di valore nei quali confluiscono esperienze compiute nell'arco di quarant'anni in posizioni di maggiore o minore responsabilità».

Voglio iniziare citando nuovamente Carli, guida e interlocutore non comune per un tratto non breve del mio percorso all'interno delle istituzioni. La sua finezza di analisi ancora oggi colpisce per acutezza e preveggenza. Più di vent'anni fa rilevava con una certa preoccupazione «l'estensione assunta dall'intermediazione finanziaria in forme non riconducibili a quelle convenzionali e sempre più riottose all'esser poste nei limiti di definizioni certe»; constatava che «invertire il corso in atto da qualche tempo di assoggettamento dell'economia alla finanza è esigenza avvertita un po' dappertutto; dove per economia si intendono uomini e donne che lavorano, che producono, che consumano, che investono, che costruiscono per sé e per le proprie famiglie». Alla percezione del problema è, evidentemente, mancato il seguito dell'azione.
La crisi finanziaria internazionale scoppiata circa un anno fa si sta riflettendo inevitabilmente e pesantemente sull'economia reale. In Italia, gli intermediari sono risultati meno colpiti, sia perché gli interventi di regolamentazione e l'azione di vigilanza sin dagli anni 90 hanno limitato la loro operatività nei settori cosiddetti innovativi, sia perché le famiglie italiane, data la loro capacità di risparmio, fanno meno ricorso al credito.

Nonostante questi elementi positivi, la sofferenza sull'economia reale è pesante. Nelle valutazioni della Banca d'Italia il Pil dovrebbe cadere del 5% quest'anno, dopo la diminuzione di un punto nel 2008; il tasso di disoccupazione potrebbe superare il 10 per cento. Gli effetti della crisi saranno, pertanto, più pronunciati rispetto agli altri principali paesi del Gruppo dei 7. La nostra economia da alcuni anni attraversa una fase di forte rallentamento. Non cresce come le altre quando le altre crescono; fa registrare risultati peggiori quando la congiuntura internazionale è debole o in calo.
Le analisi concordano nel rilevare che la deludente performance del nostro sistema economico ha radici profonde: il peso del debito pubblico, gli squilibri del bilancio, l'insufficienza delle infrastrutture, materiali e immateriali, la scarsità degli investimenti, il basso livello della concorrenza in molti settori strategici.

La produttività del lavoro e del capitale ristagna. Senza aumento della produttività il declino è inevitabile.
Non è mia intenzione indicare ricette o delineare politiche; l'ho fatto fintanto che ho avuto responsabilità nel governo dell'economia.
Rimuovere le cause che frenano lo sviluppo nel nostro paese significa intraprendere modifiche strutturali; sconfiggere il prevalere di interessi economici e sociali che traggono vantaggio dalla condizione attuale. Questo è il lavoro che va fatto, e presto; tanto più ora che la crisi impone in tutti i paesi cambiamenti profondi. L'Italia ha le risorse per portare a compimento con successo questa azione di rinnovamento. Occorrono da parte della classe dirigente volontà e determinazione; occorre che la classe dirigente abbia la capacità di motivare e mobilitare tutte le forze del paese, politiche, economiche, sociali.

Ho più volte affermato che mi riconosco nello spirito degli uomini del Risorgimento. Ho avuto la ventura di nascere subito dopo la Prima guerra mondiale, con il suo funesto seguito di nazionalismi, di forme di governo illiberali, dittatoriali; con l'affermazione dello Stato quale entità suprema a scapito dei diritti degli individui, come singoli e come soggetti associati.
Mi sono formato tra le due guerre. Negli anni universitari ho incontrato, in particolare alla Normale, docenti di livello altissimo nelle rispettive discipline; soprattutto, ho trovato maestri che educavano all'etica, alla democrazia, alle libertà.
Se rammento tutto questo è perché sia nel Risorgimento sia subito dopo la Seconda guerra mondiale - in un'Italia distrutta materialmente e nelle istituzioni - classi dirigenti illuminate seppero indicare con lungimiranza e realizzare con determinazione obiettivi ambiziosi.
  CONTINUA ...»

4 giugno 2009
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